Negli anni Trenta del Novecento, i due principali poli fieristici del sud Italia, la Fiera del Levante di Bari e la Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare di Napoli, ospitavano entrambi un padiglione dedicato all’Albania. Due edifici unici nel loro genere, progettati dall’urbanista fiorentino Gherardo Bosio. Di essi solo il secondo, ideato con l’affiancamento dell’architetto Pier Niccolò Berardi, seppur in stato di abbandono, è ancora esistente.
Come per lo scomparso barese, anche il padiglione schipetaro della fiera partenopea fu ispirato alla tipologia architettonica della Kulla, struttura dell’edilizia abitativa tipica delle popolazioni albanesi. L’edifico si presentava come una struttura a pianta rettangolare, anch’essa bugnata e arricchita dalla presenza di statue di aquile romane ai quattro angoli. La facciata principale ospitava un ampio loggiato monumentale costituito da otto pilastri in marmo e ornato da un altorilievo di Bruno Innocenti. Il salone interno, rivestito da lastre di marmo apuano, era impreziosito da ben 180 lacunari in vetro di Murano che conferivano alla struttura una rilevante luminosità. Dopo appena un mese dall’inaugurazione, la Triennale delle Terre d’Oltremare fu chiusa a causa della guerra e nel corso del conflitto occupata dagli americani per allestirvi il 21st General Hospital: in tale ottica il Padiglione Albania ospitò le sale operatorie dell’ospedale.
Con la fine della guerra, la Mostra rimase abbandonata fino al 1948, quando si diede inizio ad un progetto di riapertura del polo fieristico, conclusosi con l’inaugurazione della mostra sul Lavoro Italiano nel Mondo nel 1952. Per l’occasione alcune strutture del progetto originario, profondamente danneggiate dai bombardamenti, furono integralmente ristrutturate. È questo il caso del padiglione Albania il cui progetto di trasformazione fu affidato all’architetto napoletano Luigi Cosenza che lo convertì, rispettandone la struttura originaria, nel padiglione del Lavoro Italiano in Oceania. Tuttavia, la nuova mostra non ebbe il successo sperato e chiuse per fallimento. Ciò provocò un secondo abbandono degli edifici, che questa volta si protrasse per oltre quattro decenni.
Il Padiglione Albania, interdetto da un muro in cemento, manifesta diverse forme di degrado avanzato tanto all’esterno, del finto bugnato in tufo giallo intonacato, che negli ambienti interni, dove oltre la presenza di calcinacci si riscontrano problematiche relazionate all’umidità e all’abbandono.